Si chiama rigenerazione, vuol dire sopravvivenza

23 Settembre 2022

Il modello attuale di produzione, acquisto e consumo del cibo è insostenibile per l’ambiente e ha gravi conseguenze per la sicurezza alimentare dei popoli. 

A Terra Madre Salone del Gusto, a Torino fino al 26 settembre, è protagonista chi sfida il sistema alimentare dominante.

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I sistemi alimentari contribuiscono per oltre un terzo alle emissioni mondiali di gas a effetto serra, quelli che catturano il calore del sole all’interno dell’atmosfera terrestre provocando il riscaldamento globale. Dietro alle temperature record registrate questa estate, dietro alla siccità che ha colpito anche l’Italia negli scorsi mesi, dietro all’aumento dei fenomeni meteorologici estremi come le alluvioni – dietro cioè a condizioni climatiche che hanno conseguenze sulla vita del genere umano – ci sono quindi anche l’uomo e le sue scelte alimentari.

Ma i sistemi alimentari impattano pesantemente sulla vita delle persone anche in un modo più diretto: quello economico. «Molti paesi del continente africano soffrono lo sfruttamento e il saccheggio delle loro risorse naturali da parte di grandi aziende straniere – spiega il presidente di Slow Food, Edward Mukiibi –. Nei nostri mari, ad esempio, stazionano barche straniere che, autorizzate dai governi, pescano abbondantemente ed esportano ovunque nel mondo. Cosa ancor più grave, ai pescatori locali non è consentito accedere al mare: non soltanto, dunque, gran parte delle risorse finisce all’estero, ma alle economie locali non viene data la possibilità di svilupparsi».

E il suolo? «Nel 2007, in Uganda, mi hanno chiesto di lavorare alla diffusione di una varietà di mais che pareva essere resistente alla siccità. Molti contadini hanno provato a seminarla, ma hanno finito per perdere l’intero raccolto. Ho percepito la tristezza e la delusione degli agricoltori, così ho parlato con loro, mi sono messo a studiare i metodi agricoli tradizionali, ho scoperto i princìpi dell’agroecologia. Navigando online mi sono imbattuto in Slow Food: l’anno successivo, nel 2008, ero a Terra Madre. Posso dire di essermi rigenerato anche io, personalmente!».

Mukiibi esorta a impegnarsi in prima persona: farlo significa innanzitutto conoscere ciò che accade lontano dai nostri occhi ma che finisce sulle nostre tavole, perché è dalle scelte alimentari di ciascuno che nasce il cambiamento: «La somma di tanti individui singoli rappresenta una comunità: è così che si diventa attori del cambiamento. Non preoccuparsi di come viene prodotto il cibo che consumiamo, al contrario, significa concedere ancor più potere alle più grandi multinazionali. Vi chiedo quindi di impegnarvi per invertire la rotta: oggi non è più il tempo di ripensare il sistema alimentare, ma di reagire».

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Nel video, la registrazione della conferenza intitolata La rigenerazione necessaria a Terra Madre Salone del Gusto durante la quale è intervenuto il presidente di Slow Food, Edward Mukiibi, insieme a Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Di seguito, invece, le storie di tre membri della rete mondiale di Slow Food: perché la rigenerazione è necessaria, possibile e gratificante.

La rivoluzione in una castagna

Linda Orlandini ha 30 anni, vive sull’Appennino bolognese e fa la castanicoltrice. «Mi sono affacciata al mondo dell’agricoltura sei anni fa insieme al mio compagno, partendo da zero – racconta –. Entrambi proveniamo da famiglie che di mestiere hanno fatto altro ed entrambi siamo laureati. Come siamo partiti? Da un piccolo e vecchio castagneto di proprietà che da anni non veniva più seguito e dove non si raccoglievano nemmeno i frutti». Insieme a altri castanicoltori, hanno dato vita a un’associazione – il Consorzio castanicoltori Alta Valle del Reno, da alcuni anni divenuto anche Comunità Slow Food – che ha l’obiettivo di valorizzare il frutto di quello che da secoli è chiamato l’albero del pane: «La castagna ha bisogno di giustizia, deve rinascere – prosegue Orlandini –. Ha dato da mangiare ai nostri nonni, ma oggi non è più altrettanto conosciuta e rispettata».

Occuparsi dei castagneti non significa soltanto raccogliere le castagne, essiccarle (loro lo fanno con la tecnica tradizionale del fuoco a terra, un procedimento che dura quaranta giorni), ottenere la farina e venderla: significa anche e soprattutto avere cura della montagna. Per questo Slow Food ha creato una rete che riunisce i castanicoltori di tutta Italia e che è stata presentata proprio oggi a Terra Madre. «Attraverso la riscoperta della castagna possiamo far rinascere il territorio, ottenere boschi più fruibili, combattere il dissesto idrogeologico, mettere in sicurezza la montagna» spiega la giovane castanicoltrice. E ha ragione, perché l’incuria e l’abbandono generano le condizioni ideali per il propagarsi di incendi o il verificarsi di frane e smottamenti.

Poi c’è la questione economica, perché per far vivere la montagna non basta una connessione internet: serve poter lavorare, servono attività imprenditoriali: «Non è facile creare economie partendo da zero – ammette Linda Orlandini –. Unirsi in una rete insieme ad altre persone è importante. Oggi siamo arrivati ad avere un reddito e mezzo dall’azienda agricola, a cui affianco un altro lavoro part-time, ma lavorare la terra dà soddisfazioni più di qualsiasi altro mestiere: tutte le volte che porto qualcuno nel castagneto o che faccio assaggiare i nostri prodotti mi rendo conto che abbiamo fatto la scelta giusta. Un sogno? Tramandare a figli e nipoti una cosa che si stava perdendo».

L’insegnamento dei popoli indigeni: la terra è viva

Claudia Albertina Ruiz Sántiz è una cuoca, arriva da San Juan Chamula nello stato del Chiapas, estremo sud del Messico a breve distanza dal confine con il Guatemala. Già inserita nella classifica 50 Next, la lista in cui World 50 Best Restaurants segnala i migliori giovani chef in giro per il mondo, Sántiz appartiene all’etnia indigena dei maya tzotzil. Le abbiamo chiesto di spiegarci che cosa significhi, per lei, il termine rigenerazione: «Significa ritornare ad avere rispetto per la nostra madre Terra – dice – e soprattutto rigenerarci come essere umani. Abbiamo perso tanti valori: se li recuperassimo, potremmo fare qualcosa di valoroso per il pianeta».

La cura che i popoli indigeni mettono nella gestione del suolo, prosegue Ruiz Sántiz, parte dalla semina: «I nostri nonni ci hanno insegnato che esistono determinati periodi destinati al raccolto, mentre oggi succede che si raccolga tre volte all’anno. Per poterlo fare, però, si applica la chimica al terreno in modo che i prodotti nascano più rapidamente. Ma tutto ciò altera l’equilibrio della terra». Un esempio dell’attenzione che i popoli indigeni messicani rivolgono alla salute del suolo è rappresentato dalla milpa, il sistema di associazione di colture che prevede di seminare contemporaneamente mais, fagioli e zucca che coesistono e stabiliscono relazioni sinergiche con pomodori, peperoncini, erbe selvatiche, alberi da frutto e dozzine di altre verdure.

In definitiva, quale insegnamento può arrivare dai popoli indigeni? «Noi utilizziamo tutto quello che la terra ci offre. Non buttiamo via nulla: ad esempio se un pomodoro è molto maturo, invece di buttarlo via si può usare per salse, marmellate o succhi, oppure darlo da mangiare agli animali. E poi facciamo in modo di far riposare la terra, così che successivamente possa darci un altro buon raccolto». In poche parole, «trattiamo il pianeta come un essere vivente».

La rigenerazione in città: Taranto e le cozze

«Da noi la rigenerazione parte dal mare» racconta Luciano Carriero, referente dei produttori del Presidio Slow Food della cozza nera di Taranto. Per lui è una questione di famiglia: quarta generazione di mitilicoltori, il suo bisnonno ha trasmesso passione e mestiere al figlio, e così via fino a lui. In una terra che porta addosso i segni dell’industria pesante, della sofferenza e dell’inquinamento, un gruppo di mitilicoltori lavora per far parlare la città attraverso un prodotto sano e di eccellenza: i molluschi. «Nel 2011, quando venne riscontrata la presenza di diossine nelle cozze, nessuno voleva più acquistare i nostri prodotti. Qui a Taranto, la mitilicoltura è stata azzerata dalle industrie della città. Ma se non siamo morti noi, commercialmente e moralmente, può riprendersi chiunque».

Hanno spostato gli impianti più lontano dalle industrie, in un’area intonsa del mar Piccolo dove sgorgano più di trenta sorgenti di acqua dolce, usano materiali vegetali e biodegradabili, seguono tradizioni tramandate da secoli. Le cozze che arrivano in commercio sono sottoposte a rigorosi controlli, che certificano la salubrità del prodotto.

«Siamo la prova vivente che la rigenerazione parte da individui che si uniscono: eravamo soli e abbandonati da tutti, abbiamo lavorato duramente e Slow Food ci ha aiutati in questo percorso. Oggi siamo vivi e a contatto con il nostro mare. E il mare è così: se lo vivi, te ne innamori».

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