Come possiamo fare la differenza nel mondo attraverso le nostre azioni quotidiane? Questo è l’obiettivo della nostra conferenza Io, tu noi: quando insieme possiamo fare la differenza, il 24 settembre alle 17:30.
Per iniziare a farci un’idea di alcune delle diverse strategie che le comunità stanno adottando in tutto il mondo, abbiamo parlato con uno degli ospiti della nostra conferenza, Rupa Marya, medico dell’Università della California, è una sostenitrice della medicina profonda, un approccio decolonizzante che cerca di ristabilire legami sani con la Terra e gli altri esseri umani.
Slow Food: C’è qualche ricordo particolare legato al cibo che le viene in mente?
Rupa Marya Sono cresciuta come figlia di immigrati punjabi e probabilmente i miei ricordi più belli legati al cibo sono quelli di mio padre che cucinava. Lui era un cuoco incredibile e ogni sera la casa profumava in modo delizioso e portava con sé tutti questi profumi dei miei antenati e tutti questi odori che non erano familiari a Mountain Dew, in California, dove sono nata, lontano dalle mie terre d’origine. Mio padre era un uomo reticente ed esprimeva il suo amore attraverso la cucina. Così attraverso il cibo mi sono sempre sentita amata e collegata a una lunga serie di eredità.
Quando ha capito per la prima volta quanto il cibo fosse politico?
Beh, è iniziato quando ero bambina e andavamo a trovare i nonni in India. Essendo una bambina e vedendo che altri bambini morivano di fame per strada, mi è stato chiaro che c’erano scelte politiche che determinavano che io dovessi avere abbastanza cibo nel mio piatto e che un altro bambino ne fosse escluso. Mi fu chiaro che si trattava di una scarsità costruita ad arte e che la divisione tra chi ha e chi non ha in India, come mio padre era solito dire, non era una cosa passata, ma sarebbe stata il futuro di posti come gli Stati Uniti.

Nei suoi lavori, lei ha parlato degli errori dell’epoca illuminista che strutturano il nostro sistema alimentare.
L’errore più dannoso è consistito nel porre l’umanità al di fuori della rete della vita. Molti pensatori dell’epoca illuminista vedevano il progresso come la padronanza della rete della vita per estrarne ciò che si voleva e scartare ciò che non si voleva. Queste idee sono alla base della conquista europea – non solo delle proprie donne e dell’assoggettamento delle proprie classi subalterne – ma anche della conquista di altre terre e popoli in tutto il mondo allo scopo di estrarre ricchezza e concentrarla nelle mani di pochi.
Se guardiamo ai risultati di questo modo di pensare, secondo cui un medico è in qualche modo separato da un paziente o un agricoltore è in qualche modo separato dall’intero ecosistema di cui la sua azienda fa parte, otteniamo un comportamento che potrebbe essere in grado di estrarre un paio di benefici temporanei ma che, a lungo andare, infligge danni al tessuto del sistema. Il collasso climatico ed ecologico che stiamo affrontando dimostra come il pensiero illuminista non fosse sufficiente per comprendere le interrelazioni necessarie per una vita sana.
Spesso si pensa al colonialismo come a un periodo storico in cui gli europei conquistarono altre terre e spazzano via i popoli indigeni. Ma fu molto di più.
Quando si parla di colonizzazione, spesso le persone di origine europea dicono: «Beh, questo non ha niente a che fare con me». Ma l’Europa è stata colonizzata tante volte da tanti gruppi diversi nel corso della storia, fino ai giorni nostri. Guardate cosa sta succedendo con l’aggressione della Russia in Ucraina: è un altro esempio di militarismo estrattivo. Questo accadeva con l’Impero romano, con la sottomissione cristiana dei gruppi pagani in Europa e così via. È avvenuto privatizzando i beni comuni e sottomettendo le donne nella creazione della famiglia moderna.
È importante riconoscerlo perché la liberazione per decolonizzare e abolire queste ideologie violente è qualcosa in cui dobbiamo impegnarci tutti per trovare modi migliori di stare al mondo. Qualsiasi gruppo oppresso, che si tratti di una donna o di una persona transgender o di un immigrato o di una persona della classe operaia in una società capitalista…Qualsiasi gruppo che subisce un’oppressione sociale a lungo termine subisce cambiamenti nel proprio sistema immunitario che lo rendono più vulnerabile alle malattie da infiammazione cronica. Con questa particolare versione del capitalismo coloniale che il mondo sta vivendo in questo momento, ci sono livelli intersecati di danno, non solo sociale, che portano all’avvelenamento dell’ambiente e al collasso ecologico.
E quindi, come potremmo decolonizzare il cibo?
Penso che un modo semplice e importante sia quello di non ragionare più in termini di commodities e di togliere il prodotto dal mercato capitalistico per riportarlo su altri mercati, quelli che esistevano prima del capitalismo. Questo fa parte del lavoro che stiamo svolgendo con il Circolo di medicina profonda, che riqualifica gli agricoltori come amministratori della nostra salute. Non solo nel modo in cui coltivano cibi deliziosi e ricchi di nutrienti, culturalmente appropriati, ma anche nel modo in cui gestiscono l’acqua e il suolo per essere parti vitali degli ecosistemi in cui coltivano.

Gli agricoltori come amministratori della nostra salute. In un mondo in cui l’esistenza umana su questo pianeta fosse davvero sostenibile non ci sarebbe dunque una distinzione così netta tra agricoltori e medici?
Esattamente. Quando il suolo è gestito correttamente, sequestra l’anidride carbonica. L’industrializzazione dell’agricoltura ha danneggiato i nostri suoli al punto che stanno solo lisciviando CO2. Questo è catastrofico, non solo per la crisi climatica, ma anche per la densità di nutrienti del nostro cibo. Un terreno povero è meno in grado di nutrire i microbi del suolo, il che significa che i microbi del suolo non possono nutrire le piante e le piante non possono fornirci altrettanti nutrienti. È una concezione delle relazioni che le culture indigene di tutto il mondo ancora comprendono. Stiamo parlando di una cultura della reciprocità e della cura tra tutte le entità che sostengono il sistema.
Parlando di conoscenza indigena, in che modo il “circolo della medicina profonda” combina la conoscenza indigena con le pratiche non indigene e che tipo di rapporti avete con le popolazioni indigene locali in California?
Nel nostro collettivo sono coinvolti diversi membri della comunità indigena californiana, tra cui Katalina Gomes del Muchia Te Indigenous Land Trust. È un’anziana Ramaytush1 della fattoria che stiamo gestendo. Insieme riaffermiamo la relazionalità di noi stessi come esseri umani con i semi che piantiamo. Sono nostri parenti e stiamo collegando gli aspetti ecologici della fattoria ai metodi di coltivazione. Ci sono anche molti animali che vivono qui: aironi blu, gophers, falchi dalla coda rossa, libellule, trote arcobaleno e salmoni coho.
Storicamente, uno degli animali più importanti di questo ecosistema era il castoro, che i coloni uccidevano per ricavarne pellicce per i cappelli. Ma questi castori erano anche ingegneri di importanza fondamentale per l’ecosistema. La loro maestria idrologica è ciò che ha impedito a quest’area di bruciare per via degli incendi catastrofici a cui stiamo assistendo ora. Se i castori non ci sono più, i fiumi non scorrono più nello stesso modo e questo influisce sui salmoni. Senza salmoni, perdiamo i nutrienti che essi portavano nel fiume dall’oceano, e abbiamo meno orsi. Perdere gli orsi significa perdere i percorsi che essi creano e perdere la loro azione di fertilizzazione della terra. Ci sono tutti questi cicli di nutrienti che sono andati avanti per migliaia di anni e che sono venuti a mancare negli ultimi 250 anni. Lavorando con i nostri amici indigeni siamo stati in grado di inserire il nostro lavoro in un quadro più ampio e di vederlo con una lente più lunga.

La sua famiglia ha anche un legame con una fattoria urbana a Oakland. Qual è il legame tra l’urbano e il rurale secondo la medicina profonda?
Parte del nostro lavoro con il Deep Medicine Circle consiste nel colmare il divario tra città e campagna e nel creare un corridoio in cui semi, conoscenze, storie e persone possano andare avanti e indietro. Molti membri della nostra comunità nera di Oakland non hanno accesso a luoghi dove poter andare nella natura e sentirsi in salute e al sicuro. Spesso si sentono controllati e vengono guardati con sospetto o invitati ad andarsene quando si recano fuori città. E questo significa che non hanno i benefici antinfiammatori che offre una passeggiata in un bosco, o il contatto con un terreno sano, o la possibilità di immergersi in spazi verdi. Oltre ad aiutare le persone di città ad avere accesso alla campagna, stiamo anche gestendo una fattoria su tetto di un acro a Oakland, che è la più grande fattoria su tetto degli Stati Uniti occidentali. Non è solo un habitat per le piante, ma anche per colibrì e falchi. La cosa più sorprendente è che lassù, sul tetto, ci sono i lombrichi. Come ci sono arrivati? Vengono con il terreno, naturalmente, ma è bellissimo osservare come questo habitat si arricchisca man mano che le piante crescono, creando un nuovo ecosistema.

Rupa Marya interviene alla conferenza Io, tu noi: quando insieme possiamo fare la differenza, il 24 settembre alle 17:30, in diretta dalla Sala Kyoto dell’Environment Park di Torino e in streaming online.
di Jack Coulton, info.eventi@slowfood.it
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1 Popoli indigeni della penisola di San Francisco.